La Sicilia non è “Cosa Nostra”: dal marchio mafioso alla rinascita della coscienza sociale.

(di Andrea Cangialosi, 4 Liceo Scientifico Sportivo)

Dal giorno dell’attentato mafioso al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e ai ragazzi della scorta -Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani- il 23 maggio è ricordato come “la Giornata della Legalità”. 

Alle 17.57 del 23 Maggio 1992, una carica esplosiva di 500 kg di tritolo fa esplodere un tratto 7 A29 nei pressi di Capaci, provocando un cratere nell’asfalto, inghiottendo l’automobile dove viaggiava il magistrato con sua moglie e facendo letteralmente volare l’automobile che li precedeva, quella su cui viaggiavano tre uomini della scorta.

Si tratta di una ricorrenza molto importante per l’intera nazione, ma in particolare per noi siciliani, che viviamo in una terra da sempre martoriata dalla criminalità mafiosa (denominata “Cosa Nostra” e capeggiata da Totò Riina), che ha ucciso magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine, imprenditori che si sono opposti al “pizzo”, e in generale chiunque abbia combattuto con ogni mezzo la mentalità mafiosa. 

Alcune persone provano vergogna nell’essere siciliani, anche in considerazione di quel luogo comune che vede la Sicilia come la terra “dannata” e gestita dalla malavita organizzata, ovvero come la regione italiana in cui resiste un’attitudine alla delinquenza di stampo mafioso, fatta di soprusi anche nelle piccole cose.

In realtà, è motivo di orgoglio per tanti di noi condividere le origini con uomini e donne che hanno sacrificato la propria vita per combattere un “cancro”, che -con modalità diverse rispetto a trent’anni fa- continua ad alimentare delinquenza e a distruggere il futuro di questa terra.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tantissimi altri sono morti affinché noi potessimo avere un futuro migliore. Un sacrificio immenso, animato da altruismo e spirito di servizio, che trova nelle parole di Giovanni piena realizzazione: “bisogna compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”.

Ad oggi la mafia, pur avendo perso quel carattere sanguinario tipico del periodo stragista degli anni ’80 e ’90, trova modo di agire diversamente, ad esempio tramite il commercio della droga.

Un dato, forse, rimasto lo stesso è la tendenza alla corruzione soprattutto da parte di esponenti politici ed istituzioni, che ancora oggi subiscono l’effetto dell’intimidazione mafiosa. 

Il 16 Gennaio 2023, dopo trent’anni di latitanza, è stato arrestato l’ultimo dei boss stragisti, Matteo Messina Denaro.

L’opinione pubblica si è subito divisa: molti hanno considerato l’arresto una sconfitta per lo Stato e per le istituzioni che, solo grazie alla patologia oncologica del super latitante, hanno potuto ricostruire gli spostamenti e procedere alla cattura.

Altri invece, hanno vissuto quanto accaduto come un risultato storico ed un momento di soddisfazione e gioia.

Indipendentemente dalle opinioni personali, il vero dubbio è quello di capire come sia stata possibile una latitanza così lunga e tranquilla, fatta di frequentazioni sociali e abitudini tutto sommato “normali”.

Questo, purtroppo, è la prova di come la mafia riesca ancora ad incutere timore, a mettere a tacere, a mantenere i contatti idonei a garantire impunità per anni ed anni. Non dimentichiamo le parole di Paolo Borsellino: “politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tante altre professionalità al servizio dello Stato hanno pagato il prezzo della solitudine e dell’isolamento. 

“Si muore perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande”- diranno con  l’amarezza di non avere ancora molto tempo.

Non hanno mai pensato di essere degli “eroi”, ma per noi lo sono: hanno difeso con la propria vita questa meravigliosa terra con quel coraggio che -come diceva Giovanni- non è altro che la capacità di “convivere con la paura senza farsi condizionare da essa”.

Il maxiprocesso: l’opera di ingegneria giudiziaria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

(di Noemi Pirrello, 3 Liceo Scientifico Sportivo) 

Il maxiprocesso è stato un processo giudiziario condotto a Palermo dal 1986 al 1992 contro la mafia siciliana, più specificamente contro la famiglia criminale di “Cosa Nostra”. Il processo fu voluto e avviato dal giudice Giovanni Falcone, che aveva acquisito informazioni sufficienti per aprire una procedura giudiziaria contro oltre 400 persone sospettate di essere affiliate alle attività criminali della mafia. 

La maggior parte degli imputati fu accusata di associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata al traffico di droga, estorsione, omicidio e altri reati. 

Il processo fu anche il primo a essere condotto con il sistema dei “pentiti”, attraverso la collaborazione dei membri della mafia che fornivano informazioni sulle attività della criminalità organizzata: ad esempio, il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, uno dei capi mafia, fornì informazioni preziose agli investigatori sulla struttura di “Cosa Nostra”, sul suo funzionamento e sulle attività illecite compiute.

Grazie ai suoi racconti e alle testimonianze degli altri “pentiti”, il processo permise di fare luce sui movimenti della mafia in Sicilia e in tutta Italia; furono emesse centinaia di condanne, tra cui quella del leggendario capo della mafia corleonese, Salvatore detto “Totò” Riina, che fu condannato all’ergastolo in contumacia e che sarà arrestato solo il 15 Gennaio del 1993. 

Tra gli imputati ci furono anche Bernardo Provenzano (in contumacia) e Leoluca Bagarella. Il processo si caratterizzò per numerosi episodi di intimidazione e violenza, con diversi testimoni e giurati costretti a fuggire o vivere sotto protezione. 

A causa della complessità processuale, il maxiprocesso durò circa sei anni, considerando dal primo al terzo grado di giudizio. Alla fine del processo di primo grado, molti dei principali boss mafiosi furono condannati a lunghe pene detentive -inclusi 19 ergastoli- mentre altri furono assolti o condannati solo per reati minori.  Le condanne furono 346, le assoluzioni 114, gli anni di carcere 2665.

Il processo fu ritenuto un fondamentale passo in avanti nella lotta alla mafia italiana e nella costruzione di una cultura della legalità in Italia, essendo il più grande e complesso mai affrontato dalla giustizia italiana; un’opera di ingegneria processuale che non aveva precedenti.

Fu inoltre, un esempio di una intensa collaborazione tra le istituzioni per combattere la criminalità organizzata e la corruzione. 

I due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rappresentano il simbolo della lotta alla mafia degli anni ’80 e ’90 in Italia. Il loro immenso lavoro è stato fondamentale per la cattura di numerosi capi della mafia siciliana, tra cui Totò Riina, principale responsabile della strage di Capaci e di via D’Amelio, considerato il boss tra i più spietati ed influenti dell’epoca.

 Entrambi i magistrati, amici da sempre e colleghi fidati, dimostrarono al mondo la forza e la determinazione del popolo italiano nella lotta alla criminalità organizzata.  

Tra le strategie innovative per combattere la mafia -come già detto- fu introdotto il sistema dei collaboratori di giustizia, mafiosi arresi alle autorità e disposti a fornire informazioni dettagliate e fondamentali allo svolgimento delle indagini. 

Grazie all’impegno e alla determinazione di Giovanni e Paolo, sono stati comminati pesanti provvedimenti di giustizia nei confronti dei boss mafiosi, contribuendo in maniera significativa alla decadenza o comunque alla disgregazione dell’organizzazione criminale in Sicilia. 

Purtroppo, i due magistrati hanno pagato con la vita l’impegno nella lotta alla mafia, venendo entrambi barbaramente assassinati con ordigni esplosivi il 23 Maggio e il 19 Luglio del 1992. 

Tuttavia, il loro lavoro e il loro esempio hanno continuato a rappresentare una guida e un’ispirazione per coloro che, tuttora, si impegnano contro il crimine organizzato, nel tentativo di arginare fenomeni di corruzione in Italia e nel mondo.

Da Peppino Impastato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: il coraggio di morire per continuare a vivere.

(di Riccardo Belvedere, 3 Liceo Scientifico Sportivo)

Il 23 maggio di ogni anno, ricordando il giudice Giovanni Falcone ucciso nell’attentato di Capaci nel 1992, si celebra la giornata dedicata a tutte le vittime della mafia: il pensiero va a Paolo Borsellino, anche lui giudice, amico e compagno d’infanzia di Giovanni Falcone; a Peppino Impastato, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e tanti altri.

Grandi professionisti ed anime buone che nella loro vita hanno scelto di non pensare solamente a sé stessi, ma anche al pericolo cui andava  incontro l’intera società: infatti soprattutto tra gli anni ottanta e novanta, la Sicilia viene vessata da associazioni mafiose che hanno creato nel territorio una macchia indelebile. 

La Sicilia è, infatti, conosciuta in tutto il mondo per la mafia e la sua storia. E talvolta viene additata come la regione italiana dove la mafia, appunto, ha sempre spadroneggiato.

Per “associazione mafiosa” viene indicata quell’associazione per delinquere che si avvale della forza di intimidazione per acquistare in modo diretto il pieno controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni o vantaggi ingiusti per un fine di lucro personale. 

Tra le associazioni mafiose più importanti vi è quella di “Cosa Nostra”, termine utilizzato da Lucky Luciano e, in seguito, ripreso anche da Totò Riina e molti altri mafiosi.

Proprio in considerazione del fatto che la “Giornata della Legalità” è il momento della commemorazione di tutte le vittime della mafia e non solo del giudice Falcone -maggiormente viene ricordato il 23 Maggio- vorrei soffermarmi in particolare sulla figura di Giuseppe Impastato.

Giuseppe detto Peppino, nonostante appartenesse ad una famiglia legata a “Cosa Nostra” (il padre Luigi, lo zio ed altri parenti erano infatti notoriamente asserviti al potere mafioso di Cinisi), decise subito di rompere i legami con il padre che lo mandò via da casa, e scelse di avviare un’attività politico-culturale di sinistra in palese contrasto alla mafia.

Nel corso della sua vita aprì un giornalino, partecipò ad attività comuniste e lottò per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Cinisi. Dopo di ciò decise ancor di più di combattere la mafia, fondando nel 1977 “radio Aut”, una radio libera in cui denunciava tutti i crimini e gli affari mafiosi di Cinisi e Terrasini. 

Tra i programmi più seguiti c’era Onda pazza a Mafiopoli, trasmissione in cui Peppino derideva mafiosi e politici. 

Nonostante le intimidazioni, minacce e critiche, nel 1978 si candidò nella lista di Democrazia Proletaria per le elezioni comunali, ma non fece in tempo a sapere l’esito perché venne assassinato colpito con un grosso sasso, la notte del 9 maggio 1979, su commissione del capomafia locale Gaetano Badalamenti.

La sua morte fu da subito camuffata come un suicidio e per infangarne l’immagine, sotto il corpo del ragazzo venne posto del tritolo sui binari della ferrovia che collega Palermo e Trapani.

La scelta di approfondire la figura di Peppino Impastato nasce proprio dal coraggio che egli ha espresso e dimostrato a chiunque, nonostante l’origine mafiosa della sua famiglia. 

Peppino ha dimostrato che non si deve avere paura della mafia e che bisogna sempre lottare per ciò che si desidera anche se non si raggiunge l’obiettivo. Egli è morto con la consapevolezza di aver provato a lottare contro la mafia e -pur non avendola sconfitta- ha scelto di non tacere davanti alle intimidazioni mafiose.

Per cercare di arginare il capitolo mafioso in Sicilia, nei drammatici anni ’80 e ’90 si svolse il maxiprocesso: un processo penale celebrato a Palermo (in aula bunker del carcere Ucciardone) per crimini di mafia e che deve il nome alle sue grandi proporzioni: 475 imputati, circa 200 avvocati difensori. 

In primo grado il processo si conclude con 19 ergastoli e pene detentive con un totale di 2665 anni di reclusione: si tratta del processo penale più grande mai celebrato al mondo con una durata che – considerati tutti e tre i gradi di giudizio- andò dal 10 febbraio 1986 al 30 gennaio 1992. 

Nel 1992 persero la vita due storici giudici che hanno combattuto la mafia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A circa due mesi di distanza, in due terribili attentati mafiosi: la strage di Capaci e la strage di via D’Amelio, avvenute il 23 maggio e il 19 luglio dello stesso anno. 

Entrambi, animarono la loro vita con la passione per il lavoro, svolgendolo al meglio. Giovanni e Paolo strutturarono il pool antimafia nato da un’idea del giudice Rocco Chinnici e già reso operativo da Antonino Caponnetto: si trattava di una squadra di magistrati specializzati nel perseguire reati di criminalità organizzata, con l’idea di un coordinamento nelle indagini di mafia prima di allora sconosciuto.

Uno schema dettagliato dell’associazione di stampo mafioso e delle sue logiche delinquenziali fu offerto dal mafioso e collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta che -dopo il suo arresto- decise di rendere preziose dichiarazioni al giudice Falcone; dichiarazioni che finirono per far crollare le certezze di “Cosa Nostra” creando un terremoto all’interno dei clan mafiosi.

In seguito anche a scelte incerte sull’indicazione chi poteva continuarlo al meglio, il pool antimafia comincia a riscontrare i primi problemi interni che lo portano ad essere sciolto nell’autunno del 1988. 

Giovanni e Paolo, mettendo a rischio la propria vita, verranno per sempre ricordati da tutti per la dedizione e la fatica di quegli anni, per l’incessante e scrupoloso lavoro che, scuotendo le coscienze sociali, li ha portati alla morte.

E’ per questo che non ci sarà mai un “grazie” bastevole a ricompensare i loro sacrifici. 

Al giorno d’oggi, nel 2023, viviamo in una situazione che -fortunatamente- non è più quella di prima: la mafia non è scomparsa, ma viene ricordata ogni giorno con la paura di una nuova recrudescenza. 

Ormai non è più “evidente” come negli anni ’80 e ‘90, ma continua in silenzio ad alimentare la delinquenza nel traffico di droga; spesso si insinua nella corruzione dello Stato, e il più delle volte coinvolge le zone più degradate di Palermo e dei territori limitrofi, dove le condizioni culturali precarie agevolano la nascita di nuove forme di mafia.

Credo che ogni nostro piccolo gesto sia di grande aiuto a chi -con coraggio ed incredibile altruismo- dedica la propria vita a svolgere una professione nel tentativo di fare del bene alla società. 

L’insegnamento di Giovanni e Paolo, di Peppino e delle altre tantissime vittime di mafia, ha portato la nostra Palermo ad una nuova ed indimenticabile pagina di storia.