Anche quest’anno, in piena crisi pandemica, il 27 gennaio ricorre la giornata della memoria.
L’invito a non dimenticare il dramma dell’olocausto suona radicale come sempre e più di sempre.
C’è un posto nella mia storia in cui ho incontrato la storia dell’olocausto e che mi ha aiutato a capire e a leggere anche altri incontri e altre storie. Questo posto a me caro si chiama Sighet, una cittadina della Transilvania, popolata un tempo da una fiorente comunità ebraica poi interamente deportata ad Aushwitz.
In un piccolo e preziosissimo libro, Elie Wiesel, premio nobel per la pace nel 1986 e cittadino di Sighet, che ho personalmente incontrato lì una decina di anni fa, racconta la deportazione sua, della sua famiglia e del suo popolo.
Ogni anno che sono andato a Sighet con i giovani studenti volontari nei campi di solidarietà che organizziamo come gesuiti con la Lega Missionaria Studenti, abbiamo avuto l’opportunità di visitare la sinagoga grande di Sighet per rileggere quella storia, intervallando a brani tratti da “la notte” di Wiesel, qualche salmo del popolo ebraico e della sua lunga storia di sofferenza e di deportazione descritta nella Bibbia. Lì in quella sinagoga dove erano stati ammassati tutti gli ebrei di Sighet prima della partenza potevamo anche noi immaginare qualcosa e qualcuno di fronte a noi e riflettere sulla morte e sulla vita, arrabbiarci con la crudeltà dell’uomo, emozionarci e piangere. Facevamo poi un pellegrinaggio silenzioso fino alla stazione seguendo le orme di quel popolo che ancora incredulo era stato ammassato nei carri bestiame. Quella storia ci entrava dentro e ci permetteva di rileggere la storia di altri popoli crocifissi e la propria storia di umanità. Attorno a noi, e qualche volta con noi, gli zingari e i bambini abbandonati di Sighet, le persone handicappate e quelle rinchiuse negli ospedali psichiatrici presso le quali facevamo servizio.
Gli ultimi tempi ci hanno abituato a nuove tentazioni negazioniste di fronte a quanto terribilmente successo nel novecento, ma si stanno rilevando più ampliamente predisposti all’oblio della storia e delle sue ferite e soprattutto delle ingiustizie, delle sofferenze e delle povertà.
La tentazione che serpeggia è quella di unire alla necessaria chiusura dei lockdown di varia intensità, quella dei cuori e degli occhi. La speranza di un grande intellettuale ebreo come Levinas era proprio quella che l’incontro con il volto dell’altro potesse mettere fine alla violenza e alla ripetizione dell’identico e potesse aprire lo spazio dell’infinito e della responsabilità.
Oggi invece rischiamo proprio di non vedere più l’altro e di non lasciarci più interpellare dalla sua alterità fatta di carne ed ossa, talvolta scomoda e spesso ferita. C’è da chiedersi con onestà quanto stiamo includendo nei nostri ragionamenti sull’attualità o sul futuro del nostro mondo i popoli “crocifissi” del nostro tempo e i “crocifissi” che stanno fuori dal perimetro delle nostre, apparentemente crollate, sicurezze.
Nel suo racconto il piccolo Elie Wiesel narra del suo tormento interiore, del suo trovarsi completamente disarmato di fronte alla grande disumanità sperimentata e lui, che con grande zelo si era formato da bambino alla lettura delle scritture e che tanto aveva coltivato la fede del suo popolo, cominciava a sentire dentro una grande ribellione. Una domanda sorgeva dentro “dove è Dio in tutto questo?” , una domanda che anche senza volerlo lo accompagna nell’incontro con un altro bambino appeso alla forca nel campo di sterminio di Aushwitz. E alla fine, passandogli davanti, scopre Dio e anche l’umanità in quell’incontro con quel corpo sofferente e “crocifisso”.
Mi piace condividere con voi questo brano, nel giorno della memoria, perché possa aiutarci a non dimenticare l’olocausto e a lasciarci incontrare e toccare dall’umanità ferita, esclusa, povera, vittima di ingiustizie, che è più vicina a noi di quanto possiamo pensare, se solo non chiudiamo gli occhi.
Da lì forse, e solamente da lì, la nostra storia potrà ripartire.
“Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L’Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri. Aveva al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo. Aveva il volto di un angelo infelice.
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell’Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.
L’Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome.
Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.
Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto.
Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia.
Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.
Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
– Viva la libertà! – gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
– Dov’è il Buon Dio? Dov’e? – domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.
Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
– Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…
Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
– Dov’è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.”
La storia del popolo ebraico, resa paradigmatica attraverso questa giornata della memoria, possa rilanciare la speranza di una nuova umanità che possa ricordare e, di fronte all’inumanità più atroce sintetizzata nel genocidio dell’olocausto, scegliere di guardare e non di voltarsi dall’altra parte, di incontrare e non di fuggire, di cambiare rotta e non di continuare sulla strada dell’indifferenza.
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